Il cinema ama la danza. Si tratta di un amore forse non del tutto ricambiato, ma non c'è dubbio che da sempre il grande schermo abbia celebrato il ballo in maniera totale, pervasiva e ininterrotta. Persino prima dell'avvento del sonoro, alcune scene coreografate erano già apparse sulla pellicola; del resto, quale modo migliore poteva esserci per rappresentare la musica senza potere trasmettere il suono?
Dai film di Ginger e Fred fino al recente Oscar di La La Land, passando per una pletora di pellicole indimenticabili. Ma non ci sono solo i musical: esistono decine di opere "non musicali" incentrate sulla danza in ogni sua forma, da quella classica a quella contemporanea, passando dall'hip-hop fino alle espressioni meno frequentate dal cinema ma comunque rappresentate in alcuni titoli: c'è spazio infatti anche per il tango, il flamenco, i balli latinoamericani e le danze folkloristiche. Nel sito di Filmaboutit c'è l'elenco completo dei film sulla danza, con centinaia di titoli di ogni genere e la possibilità di specificare le liste in base ad ogni singolo stile.
Per conferire autorevolezza alla nostra ricerca, e per saperne di più, abbiamo interpellato uno dei massimi esperti italiani non solo di danza, ma anche di tutte le manifestazioni culturali che ruotano intorno ad essa: Michele Olivieri, grande conoscitore della materia, critico di danza e balletto, infaticabile divulgatore nell'ambito dell'arte tersicorea.
Michele Olivieri, Il cinema e la danza hanno un rapporto di lungo corso. Dai vecchi film con Fred Astaire fino alle ultime pellicole, la produzione è stata consistente e varia. Qual è il suo primo ricordo della danza sul grande schermo?
Quello per cui conservo maggiore memoria visiva è sicuramente Die Klage der Kaiserin - il lamento dell’imperatrice con il Tanztheater Wuppertal per la regia e la coreografia di Pina Bausch. Ricordo di averlo visto, scoprendo in me un nuovo vocabolario e un inedito linguaggio, grazie a ''Maratona d'estate'' il programma di Vittoria Ottolenghi che ha deliziato ed istruito un’intera generazione di appassionati su Raiuno. A mezzogiorno in punto era imperdibile l’appuntamento con la sua Rassegna Internazionale di Danza e in una delle tante occasioni andò in onda lo splendido e ricercato “Lamento dell'imperatrice”, il primo (e si pensava unico) lavoro cinematografico diretto dalla grande coreografa tedesca. Recentemente è stato rinvenuto, nell’Archivio della “Pina Bausch Foundation”, un secondo lungometraggio dal titolo AHNEN ahnen realizzato mentre stava girando appunto Il Lamento dell’Imperatrice, testimonianza cinematografica restata depositata per un quarto di secolo, che narra il minuzioso e millimetrico metodo professionale della Bausch con la sua Compagnia. Ritornando a Die Klage der Kaiserin la pellicola restituisce allo spettatore l’essenza che ha reso immortale il “Tanztheater”. Un film iniziato nel 1987 e terminato nel 1989, frutto di una serie di improvvisazioni dei danzatori incoraggiati dalla stessa Pina B. Privo di una tradizionale trama narrativa, il film è un susseguirsi di scene percorse da complesse associazioni tematiche, immaginifiche e sonore. Il film ruota attorno alla località di Wuppertal (città tedesca situata nel Land della Renania), ripresa nei suoi angoli più disparati: la campagna, le strade del centro cittadino, i boschi, il treno sopraelevato, la serra, la scuola di ballo, il solario, la sala prove nel vecchio cinema dismesso in cui si è realizzata la produzione creativa ed il montaggio dei singoli pezzi. Con meno cognizione di causa ricordo i vecchi film con Fred Astaire e Ginger Rogers ma anche quelli con Gene Kelly e naturalmente tutti quelli legati ai musical americani. Ricordo in particolare il fascino dell’iconica Esther Williams con i suoi capolavori musicali arricchiti da spettacolari coreografie di tuffi e nuoto sincronizzato. E poi come dimenticare Scarpette rosse, Due vite e una svolta, Il sole a Mezzanotte con l’eccelso Mikhail Baryshnikov e tante altre pellicole con altrettanti strepitosi interpreti.
Negli ultimi anni c’è stata una proliferazione di documentari “d'autore” sulla danza, intesa nelle sue espressioni più diverse, da “Dancing with Maria” a “Mr Gaga” per arrivare fino a “Dancer”. Il livello medio di questi film è decisamente alto, ma il pubblico di riferimento sembra restare circoscritto solo agli “addetti ai lavori”. Qual è la causa di questa indifferenza? il tema troppo elitario? la forma documentaristica?
Aspetto primario è la distribuzione che privilegia comunque i film di cassetta o di richiamo. Manca un canale di diffusione per una grande fetta di appassionati, ma anche di possibili fruitori, che il più delle volte non possono raggiungere i cinema delle grandi città oppure godere di canali televisivi a pagamento, detto questo il tema elitario può giocare a sfavore ma come del resto per tutti i film a carattere settoriale, ad esempio quelli sportivi, quelli biografici, gli horror, i cinepanettoni, i thriller ecc. credo sia più una questione legata all’educare i giovani (ed in particolare gli allievi delle numerose scuole di danza sparse sul territorio nazionale) alla visione di tali film, non costringendoli solo a soffermarsi su internet, ai brevi filmati trovati in rete o a certe trasmissioni televisive che infondono un unico risvolto della medaglia... per amare il bello bisogna essere predisposti, bisogna possedere una particolare sensibilità ma certamente non è una questione elitaria, è solo una questione di educazione, di conoscenza e di rispetto. Ad esempio il sopracitato Dancer è un film che regala una grande boccata d’ossigeno alla danza in generale perché sovente ci si scorda che dietro ad una grande star del balletto o anche ad un semplice allievo accademico esistono debolezze, invidie, dura disciplina, anni di sacrifici, rinunce sia affettive che personali, e tanto rigore. Con l’avvento dei talent televisivi tutto appare di facile portata ma la realtà, per chi si avvicina all’arte tersicorea puntando esclusivamente sulla qualità, è ben diversa. Di fondamentale importanza in queste pellicole è la presenza del regista nel saper valorizzare con misura e grazia le emozioni che “il movimento” regala in termini espressivi, estetici e stilistici. Non dobbiamo mai dimenticare che la danza non è uno sport bensì un’arte e come tale va trattata. E' uno studio difficile, che presuppone un’osservanza della mente e del corpo. È una graduale conquista, “passo dopo passo”, dell’equilibrio interiore che grazie ad un codificato dizionario si traslittera in gusto elegante. Senza dimenticare che i film di danza dischiudono orizzonti sconosciuti, come in Mr Gaga dove lo spettatore scopre il microcosmo di Ohad Naharin mediante la creazione del suo linguaggio di movimento animato da una visione inedita ed originale.
Ai tempi dell'uscita di “Billy Elliot”, la critica Vittoria Ottolenghi apprezzò la storia ma si disse perplessa riguardo la scelta del giovane protagonista, ritenendolo troppo sgraziato per interpretare un grande, ancorché acerbo ballerino. Quanto è importante l'attendibilità tecnica in un'opera di finzione? E' una garanzia di credibilità o almeno al cinema si può essere indulgenti? Le è piaciuto “Billy Elliot”?
La storia della danza e del balletto è ricca di tanti piccoli Billy Elliot che da brutti anatroccoli si sono trasformati in splendidi étoile o primi ballerini. Il protagonista del film non mi è mai sembrato sgraziato anzi, mi è sempre parso ben determinato. Molti ballerini celebri arrivano precedentemente da una carriera sportiva perciò la grazia, il portamento e la classe sono una giusta conseguenza dovuta ad un successivo studio coreutico di qualità al fianco di autorevoli e preparati maestri. Certamente il piccolo protagonista era acerbo ma nel momento in cui lo si vede in scena, nel finale, sono trascorsi parecchi anni ed è diventato un uomo maturo e con esso anche il suo corpo e l’allure. Il film è apprezzabile proprio perché la tenacia con cui Billy insegue il suo sogno è un esempio in cui tanti possono riconoscersi. Per quanto riguarda l’attendibilità tecnica è fondamentale per determinare una veridicità della storia, così per la danza come per tutte le altre sfaccettature della vita, ma non deve necessariamente mostrare solo perfezione ed emulazione. Ogni storia vive della propria luce e del proprio percorso che lo rende unico e scevro da inappropriati paragoni o peggio da improponibili confronti. Ritornando al film Billy Elliot, non tutti forse sanno che è ispirato alla vera storia del ballerino Philip Mosley: nel film il protagonista sa di appartenere a una famiglia dedita alla danza: la nonna, la mamma, la zia e la sorella tutte ballerine, tant’è che anche lui comincia il suo percorso prendendo lezioni di danza, tenendo a lungo nascosta questa passione per timore di essere sbeffeggiato dai compagni ed amici. La scena finale inoltre ci regala il balletto storico per eccellenza sulle immortali note di Čajkovskij con l’allestimento del Lago dei Cigni rivisitato da un grande genio coreografico contemporaneo e cioè Matthew Bourne, lasciando interpretare Billy da un’autentica star della danza internazionale, Adam Cooper, primo ballerino della “Royal Ballet Company”. Per rispondere nello specifico alla sua domanda, ritengo che non si debba mai essere indulgenti quando si tratta di arte e di cultura ma semplicemente realisti ed onesti.
Tra i molti film adolescenziali sulla danza ce n'è uno che, pur non spiccando per originalità, ha un comparto artistico di livello superiore, ed è ambientato nella prestigiosa scuola dell'American Ballet Theatre di New York. Si tratta di “Center Stage”, noto in Italia come “Il ritmo del successo”. Lo ha visto?
Certo, l’ho visto ma non l’ho amato perché la pellicola restituisce esclusivamente al pubblico una serie di numeri spettacolari, eseguiti da eccellenti ballerini professionisti, supportati da grande tecnica e da coreografie scenografiche ma risulta privo del pathos necessario nel narrare una trama. Manca completamente dell’elemento “drammaturgico” e cioè di quell'arte dello scrivere per la danza in cui si attinge dalla produzione letteraria e dalla poetica. La buona riuscita non è fine a se stessa ma necessita, a mio avviso, del supporto da parte di un “drammaturgo” (termine che in greco antico si compone delle parole “agire” e “opera”). Un film per rendere onore alla danza nella sua accezione più pura, qualunque sia la disciplina, deve operare su una sequenza di connessioni che esistono tra i diversi elementi presenti in scena e che compongono un allestimento, sia esso teatrale che cinematografico.
Gli americani parlano di “guilty pleasure” per indicare un piacere intimo e profondo di cui tuttavia ci si può un po’ vergognare. Al cinema di solito questo è costituito da un film esageratamente commerciale, magari puerile, che però emoziona. Le viene in mente, in questo senso, una pellicola da “confessare”?
Mi risulta difficile rispondere a questa domanda in quanto non amo nulla di commerciale. Fin da bambino sono sempre stato additato come un marziano perché mentre gli altri amavano andare a giocare io andavo a vedere uno spettacolo teatrale oppure una mostra d’arte. Se c’era una partita di calcio in televisione o i cartoni animati, io guardavo una trasmissione culturale oppure un titolo di prosa... non mi sono mai allineato a ciò che è “di moda e fa tendenza”; seguo un mio particolare istinto, la mia sensibilità mi ha costantemente guidato nella scelta degli spettacoli, degli autori, dei coreografi, delle compagnie. Appartengo all’epoca “d’essai”, un modo di dire che in Italia veniva utilizzato per riferirsi a quelle sale cinematografiche le cui scelte di cartellone si basavano sulla qualità artistica e su film di interesse culturale. In Francia, fin dagli anni Quaranta, tale definizione veniva attribuita a quei luoghi che proiettavano film non commerciali per un pubblico colto e raffinato nel “pensare al cinema in maniera nuova”. Non è una forma di snoberia ma semplicemente è una scelta dettata da uno stato d’animo con il massimo rispetto per chi dalla vita nutre altre aspettative e segue altri interessi. Personalmente ambisco a tutto ciò che invita alla riflessione, al ragionamento, all’approfondimento, alla conoscenza, al sentirsi sempre e comunque allievi pronti ad imparare e a conoscere... Una pellicola da confessare, in qualche modo legata alla danza (non nel termine più stretto), potrebbe essere Our Dancing Daughters (Le nostre sorelle di danza) di Harry Beaumont, che fece di Joan Crawford una star di Hollywood, un film girato muto, che in seguito venne distribuito anche in versione sonora, arricchito da sequenze parlate, musica sincronizzata ed effetti sonori.
E' in uscita un nuovo documentario su Rudolf Nureyev ("Il mondo. Il suo palco"). Personaggi di questo calibro mettono in difficoltà il cinema: da un lato sussiste la tentazione di realizzare un bio-pic su di loro, dall'altro sono – come si dice in inglese – “bigger than life” e i film biografici raramente riescono a restituirne la grandezza. Qual è la sua opinione?
È difficile ed impensabile poter racchiudere vite straordinarie, come ad esempio quella di Nureyev, in un lungometraggio. Sono più propenso alle biografie scritte, la letteratura in questo senso restituisce maggiore “visibilità” e dovizia di particolari, lasciando aperta la porta della singola immaginazione. Quando si tratta di figure così emblematiche è letteralmente impensabile poter ricostruire la magia e l’unicità del personaggio mediante qualunque altro attore o interprete. Sicuramente sarò in prima fila per l’uscita del film su Nureyev, anche se lo preferisco ricordare in scena sul palcoscenico della Scala, teatro che considero la mia seconda casa in quanto fin da giovanissimo ho sempre frequentato venendo accompagnato prima dai miei genitori in un percorso settimanale votato all’ascolto dell’opera lirica e della concertistica e alla visione del balletto, ed in seguito da solo per diletto e professione. Di Nureyev sono maggiormente attratto dal suo essere artista, dal suo apporto fondamentale al ruolo maschile nella danza e alla totale straordinarietà tecnica ed innovativa delle sue coreografie piuttosto che dagli aspetti privati ed intimi della vita, così vale anche per tutti gli altri.
Al di là del caso Nureyev, c'è a suo parere una storia di danza - magari poco nota al pubblico - che potrebbe diventare un grande film?
La storia di Franceska Mann, la ballerina ebrea di nascita polacca che si ribellò alle camere a gas nel campo di concentramento di Auschwitz. Una giovane donna che aspirava a diventare una grande ballerina e che aveva già dimostrato di possederne le doti e le attitudini per imporsi, era una delle più belle e promettenti danzatrici europee dell’epoca, tanto che a Bruxelles si era classificata al quarto posto in un concorso con centinaia di partecipanti. Franceska Mann viene ricordata dagli ebrei superstiti dell’Olocausto grazie ad una sua azione eroica nel momento in cui, assieme ad un gruppo di nuove arrivate, venne portata in una stanza sita accanto ad una camera a gas e le venne ordinato di spogliarsi al fine di procedere ad un’attività di igiene. La Mann si tolse lentamente gli abiti, in modo da distrarre la guardia, riuscendo ad afferrare la sua pistola, a cui sparò causandone la morte. Sparò anche un secondo colpo, che ferì un sergente delle SS, e la sua azione ispirò le altre prigioniere nell'inscenare una rivolta, che venne debellata tristemente con l'utilizzo delle mitragliatrici. La Mann morì negli scontri e con lei perirono anche i suoi sogni artistici.
Da qualche anno si è aperta la possibilità, grazie alle nuove tecnologie, di “portare” il teatro al cinema: sono proiezioni in diretta di opere di grande qualità, proposte in alta definizione. La danza, non avendo il problema della lingua parlata, si presta particolarmente a questa forma di divulgazione. Che ne pensa di questa tipologia di fruizione?
Reputo tale possibilità un grande privilegio, che da anni è già buona e consolidata consuetudine in altri paesi europei, nell’andare a teatro stando seduti al cinema. Il Metropolitan di New York fu il primo a proporre in diretta via satellite e in alta definizione la propria stagione nei cinema europei. Alcuni sostengono che viene a mancare la magia del teatro intesa come “rito” ma a mio avviso l’emozione non è mai venuta meno, con la giusta consapevolezza e i necessari distinguo. L’incanto del cinema che si sposa a quello dello spettacolo come forma di vita, come eterno concetto di bellezza. Portare il teatro, ed in particolare la danza al cinema, è una scommessa vinta e in forte rialzo, perché la sala cinematografica incute meno soggezione di un teatro che richiede sempre il massimo decoro sia di comportamento sia di abbigliamento, cosa invece peraltro in forte discesa. Il cinema è maggiormente popolare e non sollecita necessariamente una cultura ed una preparazione come diversamente ci si attende entrando in un ente lirico o in un teatro di lunga tradizione. Con questo tipo di iniziative ritorniamo al discorso già sopra elencato attestato all’educare con tutti i mezzi possibili i giovani (e non) al culto dell’arte, della cultura e della bellezza come àncora di salvezza e monito armonico.
L'ultima domanda di consueto è: qual è il suo film preferito in assoluto (non necessariamente sulla danza)?
Non ho dubbi, e su questa domanda ritorna “in ballo” il cinema per la danza con la pellicola Dancing Dreams – Sui passi di Pina Bausch (titolo originale Tanzträume) di Anne Linsel e Rainer Hoffmann con Pina Bausch, Josephine Ann Endicott e Bénédicte Billet. Dancing Dreams è uno splendido affresco, e se vogliamo un affettuoso omaggio, ad una delle più autorevoli ed immense coreografe della storia mondiale. Il film/documentario vede impegnate, oltre ad un numeroso e motivato gruppo di giovani amatoriali, le due insegnanti già componenti del “Tanztheater Wuppertaler” e lascia in eredità allo spettatore un’alchimia di sentimenti ondivaghi, tanto magici quanto altruisti. Il tutto parte da “Kontakthof / Mit Damen und Herren ab 65” spettacolo cult di Pina Bausch il quale si rifà al concetto legato al “luogo del contatto” come punto di convergenza per l’umanità il quale nasce e si anima grazie al movimento e al gesto. Con ironia, nostalgia e sarcasmo il film si rivela magistrale, nel narrare virtù e debolezze dell’uomo, avvalorato da una costante e ben salda struttura drammaturgica. Uno stimolo filosofico che riesce a creare empaticamente un felice connubio tra danza e teatro, e perché no cinema!